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Ora…

Mi piacerebbe poter dire che sono arrabbiata.
Probabilmente ne avrei motivo.

Mi piacerebbe poter dire che sono delusa.
Ci sarebbe qualche situazione che non ha incontrato le mie aspettative.

Mi piacerebbe poter dire che sono nostalgica.
Mi mancherebbe qualcosa.

Mi piacerebbe poter dire che sono stanca.
Avrei qualche fatica a pesarmi sulle spalle.

Mi piacerebbe anche poter dire che sono addolorata.
Avrei qualche spina.

Ci sarebbe comunque un motivo.

E invece sono triste. Semplicemente e tremendamente triste.
Senza un perché.
E l’unica cosa che mi testimonia che sono viva, sono solo le lacrime calde che mi rigano il viso.

 

tristezza

Sabato sera con Mimmo

Oggi è stata una giornata strana. Una giornata che aveva il sapore dell’attesa.
Non so di cosa, ma di attesa, sicuramente.
Ho vissuto per tutto il giorno in una bolla di stuzzicante suggestione, come se chissà cosa sarebbe dovuta accadere. E ho compulsivamente controllato i cellulari, le caselle mail, aggiornato la pagina di Facebook e del Blog, messo il naso fuori dalla finestra, fuori dalla porta, per assecondare questo strano presentimento, per accertarmi, forse per prevenire di un secondo e sedare l’ansia per l’effetto sorpresa di questo fantomatico evento misterioso, irripetibile che sentivo incombermi addosso da un momento all’altro. Fino a che non è arrivato il pomeriggio e, finito anche quello, ero pronta a vivere uno dei miei tanti sabato sera casalinghi.

Odio la confusione, odio la città quando pullula di gente, quando ti costringe a sgomitare per fare due soli passi, quando i marciapiedi sono talmente satolli di anime da dover camminare quasi in strada, tra macchine e motorini che hanno fretta di arrivare a destinazione e che rischiano di alzarti da terra. Odio i locali pieni, dove le guance mi diventano rosse per il troppo calore accumulato e per l’aria viziata, odio dover fare file di ore per mangiare una pizza, odio il chiasso… ed è per questo che quasi tutte le settimane scelgo di trascorre il sabato sera in casa. E mai da sola: ho visitato tantissimi luoghi, di sabato sera, e conosciuto tanta gente, viaggiando tra le note di un disco, tra le pagine di un libro o tra le immagini di un film. Più raramente, guardando la tv. Eppure stasera l’ho tenuta accesa per ben due ore no stop, su Rai 1, gustandomi ogni momento, ogni attimo della trasmissione – tributo a Domenico Modugno.

Ora, chi mi conosce lo sa: io sono nata vecchia, vecchia dentro, e il bianco e nero esercita su di me un’attrattiva irresistibile. Le foto in bianco e nero, con i contrasti tirati fino a bruciare i bianchi, ad esempio, o i vecchi filmati, o le copertine bianche di vecchi libri, con il titolo scritto in nero… vecchia, appunto. Totalmente tramortita e affascinata dal modo di fare di “quei tempi“: la galanteria, le attese, i lunghi e accorati corteggiamenti, l’amore più facile del sesso, le canzoni che, magari, erano di una banalità indecente per quello che riguarda la musica, ma con dei testi che erano delle vere e proprie poesie, che raccontavano struggimenti, desideri, drammi… vecchia dentro, lo dicevo.

Mimmo Modugno, dunque.
Uomo del Sud, “pugliese di nascita, siciliano d’amore e napoletano d’adozione“. Terronissimo.
Lo conosco fin dalla più tenera età e fin da allora conosco le sue canzoni, essendo uno degli artisti più amati da miei, specialmente da mia madre.
Fatta eccezione per “Nel blu dipinto di blu“, brano grazie al quale l’hanno osannato anche in America e che l’ha reso immortale, ma che, francamente, ha anche sfrantumato tre quarti di ovaie, dal momento che è stato cantato da cani e porci, a colazione, pranzo e cena, mi sorprendo spesso a canticchiare qualche suo pezzo. Quasi sempre, ad esempio, sotto la doccia, canto “Dio come ti amo”,  o “Meraviglioso” (che, ci tengo tantissimo a precisare, NON è una canzone dei Negramaro!!! Grrr!!!), o ancora “La lontananza”… mentre, invece, “Tu sì ‘na cosa grande” e “Resta cu’ mme” erano tra i miei cavalli di battaglia quando, per guadagnarmi qualcosa, facevo il piano bar in qualche locale nei dintorni.

Io, Mimmo Modugno, lo sento nella pancia. Aveva una voce calda, pastosa, scura, avvolgente, una di quelle voci con cui potrei fare l’amore mille volte al giorno, che non ascolto solo con le orecchie, ma con la pelle, le mani, lo stomaco… e il suo modo di cantare, così vero, così appassionato, ma semplice, senza virtuosismi… non doveva dimostrare nulla, perché semplicemente lui era.

E allora questo tributo, con la partecipazione del tenerissimo Lino Banfi (faccio quasi fatica, oramai, ad associarlo a film che faceva con la Fenech, non ancora ripulita) e del magistrale Massimo Ranieri, altro artista che amo, si è rivelato per quello che era: l’evento misterioso che aspettavo da stamattina.
Perché mi è bastato ascoltarlo, sentire i racconti di chi l’ha conosciuto nei momenti d’oro, ma anche nella malattia, per iniziare a vedere la mia vita in bianco e nero: mi sono vista tra il pubblico di “Canzonissima“, tra la gente che amava la sua vitalità e la sua allegria, tra chi lo seguiva a teatro, tra chi ballava le sue canzoni… mi è bastato ascoltare e guardare “Delfini” per riconoscere il rapporto che avrei voluto con mio padre e che invece non ho avuto perché la vita me l’ha strappato troppo presto.

E ho pianto. E mi ha fatto bene. Forse l’evento misterioso era proprio questo: aspettavo il momento giusto (e la chiave giusta) per potere aprire il petto, rendere il mio cuore una spugna e fare un pieno di emozioni, belle e brutte, ma che mi hanno fatto sentire viva, che mi hanno punta ovunque.

Mimmo, avresti mai immaginato di avere un potere simile anche da morto?
Lo sapevi che è questa la grandezza degli artisti?
Era questo a cui aspiravi quando sicuramente speravi di diventare in qualche modo immortale?
E soprattutto, io potevo mai immaginare che in una fredda sera di dicembre, mi sarei ritrovata a ringraziarti? Sai, penso che se avessi vissuto la mia gioventù in quegli anni, io avrei perso la testa, l’anima e il cuore per te, ma tu non mi avresti voluta, lo so… perché io sono una donna riccia

La Canzone dell’Impossibile

Uno dei concerti più belli di Sergio Cammariere: Napoli, 17 marzo 2010.
Io c’ero… e alle prime note di questo brano, lacrime calde hanno iniziato a rigarmi il viso…

La solitudine… la pioggia che, dolcemente, cade sulla città, un pomeriggio di fine inverno dopo il temporale… raggi di sole si infiltrano tra nuvole malate di primavera…

Pensa a una stanza con finestre altissime e un barlume di passato che riappare 
come se il vivere fosse attaccato ai tuoi vestiti… ed è il prezzo che paghi come ogni soldato  che ha chiuso la vita in un bacio non dato… ma tu, ora, dimmi che cosa volevi da me… 

Ritorna l’ordine dopo il disordine… accettiamo il caos insieme all’utopia
Con la matita un giorno scrissero la nostra storia, pronta ad esser cancellata…
ma c’è una calma e un cielo così limpido, che non mi sembra più nemmeno una città…

Verso la fine dell’inverno il pomeriggio annuncia giorni lunghi e miti… 
cercando un senso dove non c’è un senso… è lì che t’incontrai… 
e ora mutano, insieme a te, giorni e stagioni che scendono al mare, 
su un letto di fiumi, che parlano ancora al poeta che scrive per te. 

Guardiamo il mare con l’occhio implacabile, poi ci tuffiamo tra le verdi onde 
e dagli spruzzi alcune gocce si posarono laggiù, 
dove sull’orizzonte sta un arcobaleno in chiave di violino

(Musica: Sergio Cammariere – Testo: Roberto Kunstler)

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