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di Lorenzo Calza 

Per Favore Parlate Al Conducente

…sarebbe severamente vietato farlo, ma se il conducente è Flavio Insinna non solo non è vietato, ma è vivamente consigliato…

E’ questo, più o meno, lo slogan della trasmissione radiofonica
“Per favore parlate al conducente”.

Si legge sulla loro Pagina Facebook:

Il pullman di “Per Favore Parlate al Conducente”, guidato da Flavio Insinna, diventa un appuntamento quotidiano e, dal 15 aprile, riparte dal lunedì al venerdì dalle 16.00 alle 17.00, su Rai Radio2. Il popolare conduttore televisivo sbarca nella nuova fascia oraria con un programma che, dopo il lungo viaggio invernale e i tanti incontri lungo il cammino, affronta con rinnovata allegria la primavera, percorrendo insieme agli ascoltatori e al pubblico in studio, nuove strade e nuove avventure tutte da raccontare. Una parola chiave guida ogni giorno la puntata pensata come un viaggio metaforico in cui, il conducente Flavio Insinna si propone di ricreare la goliardica atmosfera di una gita. Divertire chi ascolta è ovviamente la missione principale del programma, che dedicherà spazio a momenti più intimi, come la lettura di una poesia o lo stralcio di un brano tratto da un libro o da un’intervista e, ancora, darà voce alle lettere, agli sms o alle mail ritenute particolarmente interessanti; il tutto è arricchito dal calore del pubblico in studio e da tanti momenti di musica dal vivo, grazie alla presenza fissa di due musicisti e di una cantante.

"Per favore parlate con conducente"

Erano anni che non ascoltavo la radio; erano anni, e in realtà lo sono ancora, che in casa mia non c’è una radio (per fortuna, invece, c’è internet). Poi, un giorno, all’improvviso il lettore cd dello stereo dell’auto decide di fare i capricci e, per raggiungere l’università, mi arrendo alla violenza di chi decide per me quale musica farmi ascoltare.
Radio 2. Riconosco una voce, una delle voci più belle che abbiamo: calda, pastosa, avvolgente, ipnotica… riconosco la voce di Flavio Insinna.
Arrivo all’università e perdo mezz’ora di lezione, perché non riesco a scendere dall’auto prima che la diretta sia terminata.

Mi sono commossa, e ho pianto, nell’ascoltare Flavio leggere poesie, lettere, articoli; ho scoperto autori che non conoscevo e nel giro di quattro mesi, la mia libreria si è arricchita di dodici nuovi volumi; mi sono deliziata con la maestria di Angelo Nigro al pianoforte, di Vincenzo Presta ai fiati, di Savino Bonito alle percussioni e di Letizia Liberati al canto; ho riso come una matta allo scambio di battute tra il conducente e il suo pianista (Angelo Nigro, oltre ad essere un musicista straordinario, è una spalla validissima)… come sia possibile che tutto questo accada tutti i giorni, in una sola ora di trasmissione, io proprio non ve lo so dire… sarà la semplice e perfetta sintesi di ore e ore di dedizione; saranno l’armonia e la sintonia che lega tutte le persone che ci lavorano; sarà che “Per favore parlate al conducente” è uno spazio intenso, che obbliga anche il più distratto essere umano ad aprire gli occhi e a guardare tutto quanto di bello e di brutto ha intorno (e questo non sempre piace, ma è necessario… tant’è che i detrattori inveiscono, ma continuano ad ascoltare!); sarà che il conducente non cede mai alla lusinga della battuta facile, volgare, a doppio senso ma, anzi, insegue sempre un invisibile (ma tangibile) ideale di pulizia interiore e di onestà intellettuale… sarà quello che più vi pare, ma sfido chiunque abbia sensibilità e voglia di viversi, a non perdersi nella magia di quell’ora.

Ho avuto la fortuna di partecipare già più volte alla diretta in studio, a Roma (può farlo chiunque, in maniera del tutto gratuita, chiamando lo 06.3700146 o scrivendo una mail all’indirizzo parlatealconducente@rai.it) e conoscere tutti di persona, assistere ai minuti precedenti alla diretta, respirare l’aria concentrata dei protagonisti e degli assistenti, rendersi conto che non c’è finzione, né inganno e che la complicità non è costruita, ma genuina e spontanea, non fa altro che amplificare ogni bella sensazione e regalare la voglia di ritornare. E di ritornare presto.

Provate a sintonizzarvi su Radio2 dalle 16 alle 17 (o a mezzanotte, in replica o, ancora, il sabato e la domenica alle 13 con “Fogli di viaggio”: una specie de “il meglio di…”, ma non solo!), salite anche voi sul torpedone e poi ditemi se non vi fareste legare ai sedili…

Giusto per darvi un’idea di quel che accade:

*** “Per favore parlate al conducente” è un programma di Flavio Insinna scritto con Marco Presta e Franco Bertini e con la collaborazione di Errico Buonanno e Stefania Livoli. La parte musicale è affidata al pianoforte di Angelo Nigro, al sassofono di Vincenzo Presta e alla voce di Letizia Liberati. In regia Savino Bonito.

La fiera delle Cazzate

Sabato 26 gennaio 2013.
Terzo giorno consecutivo di mal di testa.
Facile dedurre quale livello di intolleranza e di incazzatura io abbia raggiunto… ancora più semplice intuire la caduta precipitosa del mio pH verso livelli decisamente acidi, tanto che se un pompelmo dovesse venire accidentalmente a contatto con me, gli si ritirerebbero le gengive.

Mi sembra la giusta premessa, questa, per tentare di giustificare i toni aspri che seguiranno, anche se sono convinta che l’argomento scatenerebbe in me le stesse reazioni di rabbia, di sconforto e di poca, pochissima comprensione e benevolenza, anche in assenza di mal di testa.

Il fatto è questo.
Stamattina vagavo su Facebook, nel più totale scojonamento e rincojonimento, come un automa. Guardavo, ma non vedevo; leggevo, ma non capivo.
Assente, apatica, astenica, astronza.
Quando all’improvviso mi imbatto in una citazione di Robin Norwood, tratta dal libro “Donne che amano troppo”:

“Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. Quando nella maggior parte delle nostre conversazioni con le amiche intime parliamo di lui, dei suoi problemi, di quello che pensa, dei suoi sentimenti, stiamo amando troppo. Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza o li consideriamo conseguenze di una infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo. Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose, lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo. Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo. A dispetto di tutta la sofferenza e l’insoddisfazione che comporta, amare troppo è una esperienza tanto comune per molte donne che quasi siamo convinte che una relazione intima debba essere fatta così…”

Naturalmente, e mi sembra quasi inutile dirlo tant’è banalmente ovvio e prevedibile, queste parole erano condite da migliaia di apprezzamenti e centinaia di commenti. Tutti di donne. Tutte schifosamente e pericolosamente d’accordo con le parole di Norwood, il quale deve augurarsi che io continui a non sapere neanche chi cazzo sia e che faccia abbia e pregare di non incrociare mai il mio cammino, ché altrimenti un calcio nel culo non glielo toglie nessuno.

Quello che però mi preoccupa, e non sto esagerando, è la facilità con cui una frase del genere scateni tutte queste groupies dell’amore folle e le esalti, legittimandole a pensare che il nodo dello scatafascio che stanno vivendo sia nel troppo amore, nel LORO troppo amore, ovviamente, non ricambiato in termini di quantità. Da qui a sentirsi le paladine del sentimento puro, elargito senza sconti, a diventare le sante e le martiri del rapporto a due il passo è breve. Il successivo sarebbe quello di iniziare a fare miracoli, farsi ricrescere l’imene e pisciare acqua santa dall’ombelico.

Ora, posto che salire sul trespolo e mettermi a fare predicozzi non mi è mai piaciuto, né mi ha mai gratificata, io due paroline a questo signore e alle sue sostenitrici gliele vorrei proprio dire.

Sì, io, proprio io, che comunque dell’amore non ci ho mai capito un cazzo, che ancora sto qua a chiedermi se le storie avute siano state effettivamente d’amore o di chissà quale altra malattia incurabile.

Credo che non esista amare “troppo” o amare “poco”.
O si ama, o non si ama.
L’amore si manifesta in tutta una serie di atteggiamenti che non è possibile quantificare in troppo o poco… esistono o non esistono.
E se una relazione porta a risultati distruttivi come quelli descritti da Norwood, non è che si sta amando troppo… semplicemente non si sta amando.
L’amore, quello vero, non è mai distruttivo, e non può prescindere dal rispetto verso l’altro, ma prima ancora, verso se stessi.

Se con le amiche, trascorsi i primi periodi in cui credo sia normale, non ho altri argomenti di conversazione se non lui, non sto amando troppo: mi sono rincojonita!
E molto probabilmente il mio non è amore, ma dipendenza.

Se giustifico ogni atteggiamento e mi trasformo nella sua terapeuta, non sto amando troppo: ho evidentemente necessità di gratificazioni.

Se il suo carattere e il suo modo di pensare non mi piacciono, non sto amando troppo: sono una cretina che sta con uno che manco le piace! E se spero che lui cambi, non sto amando troppo: sto amando, forse, l’idea che mi sono fatta di lui, e tentare di cambiarlo non è comunque amore.

Se la mia relazione mette a repentaglio la mia salute emotiva e la mia sicurezza, non sto amando troppo: non sto amando affatto. Perché non esiste amore per l’altro che prescinda dall’amore per se stessi. Non posso amare un uomo, se non so amarmi, non posso rispettarlo, se non mi rispetto.

Mio caro Robin, l’amore è una cosa troppo seria per sparare cazzate…

E per sognare poi qualcosa arriverà…

Voglio ‘o mare,
‘e quatto ‘a notte miezzo ‘o pane…
e si cadesse ‘o munne sano,
je nun me sposto
e resto ‘a sotto a mo’ guardà.

Voglio ‘o mare,
cù ‘e mmura antiche e cchiù carnale…
a vita ‘o ssaje ce pò fa male
e per sognare poi qualcosa arriverà.

Tanto nun passa nisciuno
e nisciuno ce pò guarda’…
te voglio bene!
E ghià stasera, ‘o ssaje,
nun tengo genio ‘e pazzia’…
e ‘o suonno se ne va.

Voglio ‘o mare
pe’ chi fa bene e chi fà male,
pe’ chi si cerca e va luntano
e per sognare poi qualcosa arriverà.

Tanto nun passa nisciuno
e nisciuno ce pò guardà…
te voglio bene!
E ghià stasera, ‘o ssaje,
nun tengo genio ‘e pazzia’…
e ‘o suonno se ne va…

Kurt Lewin e la Teoria di Campo

Eh no… già avete sbagliato!
Non è “Cart Liuin”, ma Curt Levin. Si legge esattamente come si scrive. E’ tedesco.
Mi raccomando, altrimenti il mio professore si incazza.

Ho studiato Lewin qualche anno fa e mi sono talmente appassionata alle sue teorie, in particolare alla Teoria di Campo, al punto non solo di portare a casa un bellissimo 30 e lode all’esame di Psicologia Sociale (applausi!!!), ma da ricordarle ancora perfettamente, nonostante il mio cervello sia stato ulteriormente farcito con centinaia di altre nozioni, spesso tanto complicate quanto inutili.

La teoria in questione è quella che più di tutte mi aiuta a dare un senso pratico e sempre attuale ai miei studi, è quella che mi permette di interpretare – o di “giustificare” – la realtà, anche quando si presenta complessa, ingarbugliata, senza capo né coda. O che, quanto meno, mi consente di tenere la mente aperta e di valutare ogni circostanza senza ripiegarla solo sul soggetto protagonista, scartando a priori tutta una serie di considerazioni ego-centriche.

La Teoria di Campo era appannaggio quasi esclusivo della scuola della Gestalt (di cui mi piace ricordare il manifesto: “Il tutto è più della somma delle singole parti”), rivolta per la maggior parte agli studi percettivi, ma poi ad un certo punto, il signor Lewin, gestaltista anch’egli, la prese in prestito e ne allargò il raggio anche ai processi sociali e di gruppo.

In buona sostanza, Lewin concentrò la sua teoria in una formula:

C = f (P, A)

e cioè:
il comportamento (C) di un individuo è una funzione (f) regolata da fattori interdipendenti quali la sua personalità (P) e l’ambiente che lo circonda (A).

E’ facilmente intuibile, a questo punto, che siamo di fronte ad una teoria decisamente dinamica, che dà ragione della realtà analizzandola nel momento stesso in cui si presenta, in base ad un complesso sistema di forze che agiscono, cambiano e che, di conseguenza, trasformano l’assetto di tutto il sistema.

Tutto questo mi è ritornato alla mente (non senza un enorme senso di gratitudine verso il mio professore di Psicologia Sociale) leggendo gli articoli di Elinepal e di CetrioloSolitario sul libro “Dove sono gli uomini?” di Simone Perotti.  

Io non l’ho letto, ma mi è parso di capire che il libro tenti di affrontare lo spinoso problema del “non ci sono più gli uomini di una volta” e, ovviamente, tutto quello che ne consegue.

La questione mi sta naturalmente a cuore, in quanto donna e in quanto donna incapace di trovare, appunto, l’uomo che se proprio non si possa definire “della vita“, che sia almeno quello di un presente piuttosto lungo e sereno. Come ho scritto altrove:

“Ne ho le palle piene di uomini spaventati e incapaci di portare i pantaloni. Ridurre tutto ad una questione di sesso è da persone ‘piccole’: si tratta di ‘parti’. Allo stesso tempo sono stanca di recitare la parte della femmina forte e solida che basta a se stessa: io non basto affatto a me stessa. Ho bisogno di un uomo, di un uomo forte, coraggioso, capace di decidere, se necessario, anche per me, di un uomo che mi faccia sentire a casa in qualunque luogo ci sia lui, che sappia proteggermi. Non lo trovo, di conseguenza devo proteggermi da sola e di conseguenza darò un’idea di me che solo chi è in grado di guardare oltre saprà demolire. Eh… ma ‘ndo sta?”

Uno sfogo naturalmente, ma se volessimo andare alla ricerca delle cause prime che hanno determinato questo stato di cose? Cos’è successo?
E’ stato prima l’uomo a involvere ad uno stato di perenne adolescenza o è stata la donna, con la sua emancipazione a intimidirlo? Se non esistono più gli uomini di volta, è altrettanto vero che neanche le donne di una volta esistono più?

E quanto, in tutto questo, gioca l’educazione, specie quella materna?
Perdonatemi, mamme, non voglio fare generalizzazioni, non mi piace e non ci credo, ma tutte le mamme di figli maschi che conosco, comprese donne a cui voglio un gran bene, stanno tirando su dei coglioncelli smidollati e viziati. E non credo affatto che sia un fenomeno solo degli ultimi anni. Anzi, forse ora qualcosa sta cambiando, ma quante sono state le mamme, soprattutto le prime lavoratrici, che hanno tentato di soffocare il senso di colpa dell’abbandono per il lavoro, sommergendo i figli di tante attenzioni materiali e non, gratificanti al momento ma terribilmente nocive sulla lunga distanza?

E’ evidente. Stabilire chi ha creato cosa é quasi impossibile, ma è altrettanto impossibile stabilire cause (o colpe) unidirezionali, senza tenere conto di quante e quali trasformazioni siano avvenute nel corso del tempo, negli uomini e nelle donne, influenzandosi a vicenda e che hanno portato a questo stato di cose.

Non alla luce della Teoria di Campo di Kurt Lewin.

E che Odino ci aiuti.

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