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Kurt Lewin e la Teoria di Campo

Eh no… già avete sbagliato!
Non è “Cart Liuin”, ma Curt Levin. Si legge esattamente come si scrive. E’ tedesco.
Mi raccomando, altrimenti il mio professore si incazza.

Ho studiato Lewin qualche anno fa e mi sono talmente appassionata alle sue teorie, in particolare alla Teoria di Campo, al punto non solo di portare a casa un bellissimo 30 e lode all’esame di Psicologia Sociale (applausi!!!), ma da ricordarle ancora perfettamente, nonostante il mio cervello sia stato ulteriormente farcito con centinaia di altre nozioni, spesso tanto complicate quanto inutili.

La teoria in questione è quella che più di tutte mi aiuta a dare un senso pratico e sempre attuale ai miei studi, è quella che mi permette di interpretare – o di “giustificare” – la realtà, anche quando si presenta complessa, ingarbugliata, senza capo né coda. O che, quanto meno, mi consente di tenere la mente aperta e di valutare ogni circostanza senza ripiegarla solo sul soggetto protagonista, scartando a priori tutta una serie di considerazioni ego-centriche.

La Teoria di Campo era appannaggio quasi esclusivo della scuola della Gestalt (di cui mi piace ricordare il manifesto: “Il tutto è più della somma delle singole parti”), rivolta per la maggior parte agli studi percettivi, ma poi ad un certo punto, il signor Lewin, gestaltista anch’egli, la prese in prestito e ne allargò il raggio anche ai processi sociali e di gruppo.

In buona sostanza, Lewin concentrò la sua teoria in una formula:

C = f (P, A)

e cioè:
il comportamento (C) di un individuo è una funzione (f) regolata da fattori interdipendenti quali la sua personalità (P) e l’ambiente che lo circonda (A).

E’ facilmente intuibile, a questo punto, che siamo di fronte ad una teoria decisamente dinamica, che dà ragione della realtà analizzandola nel momento stesso in cui si presenta, in base ad un complesso sistema di forze che agiscono, cambiano e che, di conseguenza, trasformano l’assetto di tutto il sistema.

Tutto questo mi è ritornato alla mente (non senza un enorme senso di gratitudine verso il mio professore di Psicologia Sociale) leggendo gli articoli di Elinepal e di CetrioloSolitario sul libro “Dove sono gli uomini?” di Simone Perotti.  

Io non l’ho letto, ma mi è parso di capire che il libro tenti di affrontare lo spinoso problema del “non ci sono più gli uomini di una volta” e, ovviamente, tutto quello che ne consegue.

La questione mi sta naturalmente a cuore, in quanto donna e in quanto donna incapace di trovare, appunto, l’uomo che se proprio non si possa definire “della vita“, che sia almeno quello di un presente piuttosto lungo e sereno. Come ho scritto altrove:

“Ne ho le palle piene di uomini spaventati e incapaci di portare i pantaloni. Ridurre tutto ad una questione di sesso è da persone ‘piccole’: si tratta di ‘parti’. Allo stesso tempo sono stanca di recitare la parte della femmina forte e solida che basta a se stessa: io non basto affatto a me stessa. Ho bisogno di un uomo, di un uomo forte, coraggioso, capace di decidere, se necessario, anche per me, di un uomo che mi faccia sentire a casa in qualunque luogo ci sia lui, che sappia proteggermi. Non lo trovo, di conseguenza devo proteggermi da sola e di conseguenza darò un’idea di me che solo chi è in grado di guardare oltre saprà demolire. Eh… ma ‘ndo sta?”

Uno sfogo naturalmente, ma se volessimo andare alla ricerca delle cause prime che hanno determinato questo stato di cose? Cos’è successo?
E’ stato prima l’uomo a involvere ad uno stato di perenne adolescenza o è stata la donna, con la sua emancipazione a intimidirlo? Se non esistono più gli uomini di volta, è altrettanto vero che neanche le donne di una volta esistono più?

E quanto, in tutto questo, gioca l’educazione, specie quella materna?
Perdonatemi, mamme, non voglio fare generalizzazioni, non mi piace e non ci credo, ma tutte le mamme di figli maschi che conosco, comprese donne a cui voglio un gran bene, stanno tirando su dei coglioncelli smidollati e viziati. E non credo affatto che sia un fenomeno solo degli ultimi anni. Anzi, forse ora qualcosa sta cambiando, ma quante sono state le mamme, soprattutto le prime lavoratrici, che hanno tentato di soffocare il senso di colpa dell’abbandono per il lavoro, sommergendo i figli di tante attenzioni materiali e non, gratificanti al momento ma terribilmente nocive sulla lunga distanza?

E’ evidente. Stabilire chi ha creato cosa é quasi impossibile, ma è altrettanto impossibile stabilire cause (o colpe) unidirezionali, senza tenere conto di quante e quali trasformazioni siano avvenute nel corso del tempo, negli uomini e nelle donne, influenzandosi a vicenda e che hanno portato a questo stato di cose.

Non alla luce della Teoria di Campo di Kurt Lewin.

E che Odino ci aiuti.

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